Anche un Runner fa Yoga. E lo sa.


Da alcuni anni pratico il running, con una certa costanza e impegno, partecipando anche a gare amatoriali, e allenandomi in modo costante e strutturato per migliorare le mie prestazioni. L’esperienza  dello sport praticato in questo modo, pone inevitabilmente di fronte al tema della disciplina. Non si corre, una volta ogni tanto, quando si ha voglia, in compagnia di amici, quando si è di buon umore e il tempo è bello, e la giornata libera. No. Si corre rispettando una tabella di allenamento.


Non si fa una “corsetta” intorno all’isolato, non è “Jogging”. Si scende in strada e si eseguono quelli che, in gergo, si chiamano “lavori” (e il temine dice tutto) ovvero esercizi che impegnano i vari aspetti della pratica sportiva (velocità, potenza, resistenza). E tutto questo, in qualunque condizione interna e esterna. Come dicono gli inglesi “come rain or shine”, in qualunque caso, cascasse pure il mondo.

Ci si allena  quando si è crucciati, si è stanchi, si avrebbe solo voglia di buttarsi sul divano. Si corre quando si è tristi, depressi, preoccupati. Oppure si ha sonno, si sente il peso della giornata lavorativa sulle spalle. E fuori quasi mai il clima è accogliente: spesso fa freddo, o molto caldo, o piove. Giornate invernali sferzate da vento gelido, giornate estive dall’afa insopportabile. Ma, comunque, si corre e basta, accantonando tutto il resto, ignorando tutti gli alibi, spesso anche molto convincenti, le mille ragioni per non correre.

E correre invece per l’unica ragione che ci si può dare. Che non è mai una ragione razionale, come dimagrire, o star bene in salute e via dicendo. Questo tipo di motivazioni sono destinate a scemare nel tempo. No, l’unica ragione è la disciplina. La decisione presa a monte di farlo, e basta, il bisogno interiore di rispettare questo patto con se stessi. E la disciplina, la costanza, la ripetizione, la non condizionabilità dall’esterno, danno all’Anima uno spazio nuovo, in cui collocarsi, e esprimersi, e essere.

Possiamo dire che , in fondo, la disciplina è fatta di vuoto, fornisce lo spazio per essere. Non è un “pieno” di ragioni e di pensieri, ma un “vuoto” dove collocare la propria potenzialità. Chi pratica sport in questo modo segue una sorta di disciplina del guerriero, di bushido, e pratica inevitabilmente anche l’auto-osservazione.

Spesso iniziando un allenamento, preso da stanchezza, mancanza di motivazione, paura persino di non trovare la forza, osservo questo me stesso debole, e inizio l’allenamento dicendomi “fai il primo chilometro” e poi mi osservo ancora e vedo che il mio IO recalcitrante è rimasto lì, indietro e io sono un chilometro avanti, e parto per il secondo chilometro, e così via. E così si fanno cinque chilometri e poi dieci e poi ancora altri. E posso voltarmi e guardare il me stesso bloccato, stanco, impaurito che ho lasciato laggiù, infondo al tormento del tempo, mentre il corpo comincia a rispondere, ad adattarsi alla fatica, a lanciarmi segnali positivi, mentre si attiva e ripercorre ancora una volta tutta la strada evolutiva dall’inerzia al moto, dalla stasi all’energia.

E così realizzo che quel me stesso che vedo ora piccolo e lontano, quell’ombra di me che mi sono lasciato alle spalle, non era neanche me, perché io sono ora questa volontà cieca e inspiegabile tesa a completare l’allenamento, sono il presente, i tre metri di strada che vedo davanti a me, il respiro impegnato, i muscoli tesi, il corpo che avanza. E via via mi apro alle sensazioni: la bellezza del respiro, il ritmo della corsa, gli scorci di cielo e paesaggio.

Così, attraverso il corpo, supero tutte quelle paure collocate nella mente. E la mente tace, sommersa nella fatica, nell’azione, nella decisione. E imparo a non credere più nella mente. Almeno fino alla prossima volta in cui le crederò ancora. Ma intanto, adesso, sorrido. E ce la faccio ancora una volta. E alla fine mi fermo. E distendo le braccia verso il cielo. E sono lì, di nuovo, io.

(Lucio Macchia)
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